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divani in viaggio
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Siamo in compagnia di Meltea Keller, autrice della raccolta di racconti Fragili futuri edita da KaiFab Edizioni, 2023.
Benvenutə su Unmondodilibri, vuoi presentarti brevemente e raccontare di cosa parla la tua raccolta di racconti?
Ciao, sono Meltea Keller e sono un’autrice inclassificabile.
Ma sul serio. Me lo sento dire spessissimo: “Bellissimo, ma non so dove collocarti”. In effetti, la mia prospettiva è particolare: sono neurodivergente, genderfluid, ecologista radicale, culturalmente a metà fra Italia e Inghilterra ma da piccola guardavo la tv francese, molto di parte, molto diretta, molto poco consolante. Studio buddhismo di tradizione mahayana quindi sono portatə sia a una visione olistica sia a considerare scienza e discipline umanistiche importanti alla pari, in Italia un autore con una visione così è Bruno Arpaia, poi c’è Bruno Arpaia e anche… Bruno Arpaia! Scherzo – ma perché non me ne vengono in mente altri – e non a caso lui ha scritto la prima cli-fi di serie A italiana. Scienza e discipline umaniste sono due gemelle che si guardano con sospetto e invece si dovrebbero volere bene, per inciso.
Poi sono una cantante – la mia band era famosa negli anni 90 e si chiama Mumble Rumble e fa alt-rock – quindi non sono neanche il tipo di intellettuale con postura borghese composta, accettabile e universalmente riconosciuta nei salotti buoni come seria. Per la verità io mi considero molto seria – ma seriosa no, conformista neanche. Sono più una Laura Betti, ecco. Infatti in tutto ciò, spero di essere anche divertente, che i miei libri non annoino anzi soddisfino e passino messaggi costruttivi. Ah poi, il mio nome da albo di Diabolik l’ho scelto un po’ perché Mèltea è come mi chiamavano al liceo (giochini da liceo classico) un po’ perché, data la mia inclassificabilità, mi tengo aperti anche i mercati anglofrancesi per avere più possibilità e cercavo un cognome diffuso in più di una nazione europea. Gli amici mi chiamano Mel, che è il classico nome a tre lettere dei genderfluid.
Insomma, questo essere “inclassificabile” mi crea un sacco di pippe, ma in fondo ne vado fierə.
E Fragili Futuri è la raccolta di racconti che avrebbe scritto Dino Buzzati se fosse stato ecologista. È una tagline abbastanza accurata?
Da quanto scrivi e da dove nasce questa esigenza?
Guarda, io sono una persona nello spettro autistico e ad alto potenziale cognitivo – in altri termini ho un quoziente intellettivo molto alto – dice: “figata”. Eh no perché dal lato-spettro ci sono tutta una serie di “muri invisibili” che rendono complesse le relazioni con gli altri, dal lato alto QI invece le emozioni sono davvero difficili da gestire. Ecco, io scrivo per comunicarmi e per gestire le mie emozioni, come se mi aiutasse a mettere in ordine la testa. Per questo da un lato non potrei mai smettere, dall’altro tento ancora imperterritə di passare al professionismo con la sceneggiatura perché la gestione delle energie degli autistici è altalenante e, dato che smettere di scrivere mi è impossibile, vorrei davvero a un certo punto della mia vita fare un mestiere solo.
Ti racconto questa cosa che è divertente. Cioè, mi ha spezzato il cuore all’epoca, ma se mi guardo indietro il rapporto che ho oggi con chi decide cosa leggere in Italia non è che sia cambiato molto: avevo 7 anni e mezzo, ero in seconda elementare. Per socializzare coi miei compagni, avevo iniziato a scrivere racconti divertenti con loro come protagonisti – me ne ricordo uno in cui a una bambina veniva perdonato di tutto dalla maestra perché era molto bella ma una fata gli toglie la bellezza e deve imparare a cavarsela senza. Insomma, ai miei compagni questi racconti piacevano molto, tanto che me li commissionavano. E un bel giorno il mio quadernino rosso con un cucciolone con grandi occhioni su cui scrivevo arriva in mano alla maestra. Lei legge e decreta che i miei racconti vanno distrutti perché sono offensivi. Te lo giuro. Quindi mi ha obbligato a strapparli lì davanti a lei. L’ha fatto in realtà la mia compagna Denise, che con il suo modo di fare molto teatrale, mi disse: “Posso avere l’onore di farlo io” “Sì, sì, vai, vai” io ero fuori di me, figurati.
Insomma, prima opera-prima censura. Quando dico che farmi sentire è sempre stata una lotta, intendo dal principio.
La tua produzione letteraria è principalmente legata al genere cli-fi oppure spazia in altri generi letterari (vuoi spiegare al pubblico quali sono le prerogative del genere cli-fi)?
Allora la climate fiction o cli-fi, per farla breve, incorpora nella narrazione il cambiamento climatico. È un genere militante, tendenzialmente radical e di critica politica ed economica. Non si sovrappone alla sci-fi perché c’è tutto un filone realista – in Italia per esempio c’è Non siamo eroi di Sara Segantin con questo taglio.
La domanda allora diventa: perché bisogna rappresentare il cambiamento climatico? C’è questo filosofo molto pop e provocatore, importante nell’ecocritica, che si chiama Timothy Morton, il quale dice che il clima è un iperoggetto. Cioè un oggetto talmente grande che i sensi umani non lo percepiscono interamente. Percepiscono il meteo, per percepire il clima dovremmo essere vasti quanto la Terra e l’atmosfera terrestre. Quindi se l’essere umano non percepisce un sistema così vasto, essendo evoluto in ere primitive di fronte a pericoli contenuti (come per esempio una tigre) l’essere umano non percepisce il pericolo. E anche gli shock ecologici, se non c’è consapevolezza prima, non sempre fanno agganciare il pensiero al cambiamento climatico, la tendenza è di cercare sempre una responsabilità umana anche quando non c’è o è una co-responsabilità. L’abbiamo visto con il covid, piuttosto che accettare lo spillover ci si inventavano laboratori segreti in Cina. Ma perché un essere umano non è immenso come un iperoggetto, è più facile da affrontare. Sono bias della mente.
Ecco perché c’è bisogno, nella lotta al cambiamento climatico, degli umanisti. Gli umanisti hanno lo storytelling, l’estetica, i personaggi, i temi che si intersecano con il fare il punto della situazione con la condizione umana, l’intrattenimento, l’empatia… assieme possiamo portare l’immaginazione della gente un passo più in là e magari aumentare la pressione sociale verso un cambiamento reale.
Pensa che io mi sono laureata per la quarta volta con una tesi sulla cli-fi e nel mentre è arrivato proprio il covid. Tutti nel panico, tranne me. Il 30 marzo, il giorno della laurea (in remoto) la mia relatrice mi chiama e ci rendiamo conto che noi due – avendo presente gli studi sui rischi pandemia, sugli agenti patogeni nei ghiacciai – eravamo tra le poche non solo preparate a una cosa simile ma che ce l’aspettavamo peggiore.
L’altra domanda era se tocco altri generi. In questo momento sto cercando di piazzare bene tre romanzi. Una è una tetralogia lettearia che parte cli-fi e finisce in utopia che mi ha assorbito per tutto il 2025. Sono abbastanza in fibrillazione perché l’ho scritta in doppia lingua e la versione inglese mi è stata chiesta come manoscritto integrale da un’agente statunitense di uno studio importante. Quindi sono qua che attendo. Per questa tetralogia ho puntato sui mercati anglofrancesi perché trovare un posto di serie A per la cli-fi letteraria in Italia, in quest’ondata di autofiction colta e un po’ superficiale che regna sovrana, è una faticaccia. Gli altri due romanzi sono un giallo/noir ambientato durante il festival di Sanremo e una riscrittura di Tra donne sole di Pavese molto militante transfemminista dove ho cacciato un filo di autofiction nella mia Clelia ma per dire altro. Insomma, il genere che scelgo dipende da quello che c’è da narrare –l’esigenza interiore chiama il genere appropriato.
Oltre ad essere una scrittrice, si comprende dal tuo libro una forte passione per la lettura. C'è qualche libro che ha influenzato il tuo stile o il contenuto di ciò che scrivi?
Ha! Qua sicuramente La boutique del mistero di Dino Buzzati (la mia trinità italiana è Buzzati-Pavese-Bianciardi). Chi bussa? rimanda in maniera palese a Eppure bussano alla porta – lì era l’alluvione del Polesine. La boutique del Mistero è un libro che mi ha sconvolto, per come l’autore avesse mangiato, digerito e risputato con la propria voce a tratti esistenzialista Kafka. Ecco, poi c’è Kafka. Dorothy Parker, il sarcasmo l’ho preso da lei, il suo piglio mi somiglia molto – da più giovane le somigliavo fisicamente, ogni tanto come avatar mettevo foto sue nessuno notava la differenza.
Poi Pavese. Pavese è l’autore con cui parlo nella mia testa. Dato che nell’Olimpo, lato francese, il primo è Proust, mi interessa molto la linea sottile che unisce Proust a Pavese – sembrano lontani anni luce ma nel suo diario Pavese ha scritto tantissimo sul ricordo partendo da Proust. La sua idea era che si vedono le cose solo due volte perché la prima esperienza è persa nell’infanzia ma gli archetipi che questa genera ci condizionano la vita forever. Avremmo litigato tantissimo per quel “forever”, perché poi lui con questa idea del sé immobile giustificava il suo essere bloccato in depressione – tuttavia, con la mia lente buddhista, ho dato la mia versione di questa riflessione che si ritrova un po’ in tutto quello che scrivo (qua si intravede in Caterina Grande Mente).
Poi mi ha influenzato Agatha Christie per i personaggi (ho divorato tutto Poirot fra gli 8 e i 12 anni – è l’eroe autistico per antonomasia e no, quello di Branagh non è Poirot). Carlo Lucarelli per la suspance, Virginia Woolf, Anne Bronte e Jeanette Winterson per il coraggio, David Mitchell per le architetture mastodontiche (la mia tetralogia è anche figlia di The Bone Clocks), Joyce per i racconti, Atwood, Mary Shelley e Le Guin per la visione, Pascal Quignard per come tratta la storia, Antonia Byatt per come imita lo stile degli autori del passato e intanto crea personaggi umanissimi, Marguerite Duras che faceva autofiction ma sempre per dire altro e parlava del desiderio femminile a viso aperto, Bianciardi per il giochino meraviglioso di Aprire il fuoco dove per provare un punto politico somma le Cinque giornate di Milano, il '68 e la Resistenza come se accadessero in contemporanea. Ah, ultimo ma non meno importante, Cervantes perché racconta una condizione dell’anima titanica e commovente ma nello stesso libro – chiaramente Don Chisciotte – ci sono momenti picareschi molto trash che fanno ridere fino alle lacrime.
Accipicchia che elenco della spesa!
Quando si parla di crisi climatica la reazione generale è una sorte di assuefazione e resa generale. Pensi che la letteratura possa avere un ruolo attivo nel cambiare questo atteggiamento?
Mio nonno, nell’ultima fase della sua vita, parlava continuamente di fine del mondo. Quando gli facevi notare che era troppo negativo, rispondeva: “Che mi frega, tanto io muoio. La peggio è per voi”. Ecco, almeno mio nonno tentava di mettermi in guardia – oggi mi sembra che chi volta la testa dall’altra parte prende solo la prima parte della frase di mio nonno, che mi frega io muoio. La Gen Z però non può, gli Alpha meno che mai, perché a loro toccheranno gli effetti inaspriti del disastro nel bel mezzo della loro vita adulta. Bisognerebbe invertire il movimento: leggevo che la Gen Z legge un libro all’anno per il 52% e sono romance, fantasy e sci-fi. Quindi chi sa già cosa rischia, non fosse altro che per i movimenti come i Fridays, legge generi che si avvicinano alla cli-fi o generi dove forte è la rappresentanza delle cosiddette minoranze come il romance. Gli adulti no. Per il principio per cui il dottore deve curare il malato, è dai Millennial ai Boomer che si dovrebbe leggere cli-fi. Invece mi sembra che certe fasce di età siano talmente confuse che cercano libri consolanti, piccole storie carine che però non sono trasformative. E la grande editoria, passatemi il termine, “alta” per contro ignora gli Z. La differenza fra quel che piace a me e quello che gira per i circuiti alti è la stessa che passa fra la fidanzata carina e accettabile e la tipa che ti piace così tanto che ti sconvolge – io che sono sempre stata, per mia natura, in questo secondo gruppo non potevo non fare cli-fi. Cerco nell’arte, quindi nella cli-fi, che mi diverta, mi stimoli e mi tiri una sana botta nello stomaco quando occorre (senza triggerare) ma sappia anche darmi l’antidoto. E spero di fare lo stesso in Fragili Futuri, ci tengo molto alla mia pars construens. Se ci deprimiamo facciamo come Pavese, ci blocchiamo. Anche perché immaginare il futuro, immaginare le cose alle quali andiamo incontro non porta solo ansia. Porta a riconoscere tutto un gruppo che è come te, che soffre come te, che capisce che la giustizia ecologica e quella sociale sono parenti, che elabora strategie di sopravvivenza che fanno ripensare le cattive abitudini, che pensa davvero a un altro modo di vivere in cui stare meglio tutti… per me affondare sul cambiamento climatico (cosa per la quale ringrazierò sempre la professoressa Spinozzi di letteratura inglese di Ferrara, la mia relatrice, che mi ha cambiato la vita) è stata una grande sveglia ed è questo che spero di passare, nel mio piccolo.
Perché hai scelto proprio la forma del racconto per veicolare il tuo messaggio?
Mi ricordo vagamente qualcuno che, parlando di Carver, disse che il racconto è la forma che si adatta alla contemporaneità perché è veloce e intenso. Un po’ avevo questa cosa in mente, un po’ il primo racconto – Infinito – è nato in realtà come cortometraggio. Anzi, sarebbe tutto pronto per andare in produzione, mancano i soldi! Quindi il resto si è costruito attorno a Infinito con questa stessa forma.
C'è un racconto a cui sei più legatə o un personaggio che ti somiglia?
Personaggio che mi somiglia: Caterina Grande Mente. È la cosa più smaccatamente autobiografica che ho scritto anche se poi mi sono sbilanciata verso il buddhismo Mahayana, di cui mi considero studentessa, e non verso lo sciamanesimo. Sì, ho detto a catechismo che in realtà ce la stiamo raccontando sull’inferno e paradiso perché tanto ci reincarniamo scioccando la catechista – avevo 8 anni. Ah beh, Elena che litiga con il padre nel Tunnel è una parodia di mio padre – lui lo sa. Non so se lo accetta, secondo me è un po’ orgoglioso un po’ infastidito, ma quando vivi con una persona che scrive devi aspettarti prima o poi di comparire da qualche parte. Sono i rischi del mestiere – per gli altri.
Mentre le storie alle quali sono più affezionata sono due: Infinito, perché l’amianto è una storia mai finita – ultimamente ci siamo dispiaciuti per la morte del maestro Vessicchio, che aveva i polmoni malridotti perché da piccolo giocava nell’amianto della Eternit di Bagnoli. E Chi bussa? perché è un mix letale di Buzzati più un paper sulle previsioni del cambiamento climatico su Venezia e i limiti del Mose. Venezia rischia tantissimo. Sostanzialmente sono riuscita a tramutare in narrazione avvincente e inquietante un saggio scientifico, ne vado molto orgogliosa.
Come immagini che cambieranno in futuro le interazioni tra uomini e ambiente?
Secondo me le applicazioni pratiche più interessanti oggi stanno avvenendo in Africa. In Africa il futuro è adesso, i cambiamenti climatici sono già spaventosi. Infatti, in paesi come Nigeria e Sud Africa, è anche la grande stagione della cli-fi. E dall’Africa vengono idee geniali e sostenibili su come convivere con un ambiente sempre più ostile – per nostra responsabilità: dal gestire l’acqua con rischio siccità, a come applicare energie rinnvabili, a come gestire risorse.
A livello ideologico, vorrei che si realizzasse l’ideale di Alex Langer – un altro inclassificabile: che la transizione ecologica sia socialmente desiderabile e desiderata. Probabilmente il lato radicale delle giovani generazioni può arrivarci, almeno a una maggioranza che desidera una sterzata, perché sono arrivati in questo mondo che era già in crisi e alla favola del capitalismo che porta benessere (spoiler: il benessere finisce e le crisi sono cicliche) non ci credono più. Giustamente. È difficile convincere invece la fascia dai Millennial (che sono a metà) verso i Boomer e lo dico da Millennial.
Desiderare la transizione vuol dire anche tornare a non considerarci staccati dal non-umano: c’è un momento bellissimo di Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher dove Lazzaro è resuscitato e dice ai suoi, oramai subproletari urbani, “ma come non c’è cibo?” e gli indica una serie di piante nate spontaneamente al lato della ferrovia dove gli altri sono accampati. Così che loro, che avevano perso la capacità di nominare le piante, possono finalmente mangiare.
Ecco, questo. Questo vorrei. Rohrwacher l’ha detto con le immagini meglio di me.
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