Un mondo di libri:
divani in viaggio
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Siamo in compagnia di Rosario Rito, autore di Educarsi alla disabilità.
Vuole presentarsi e raccontare in breve di cosa parla il suo libro?
Di due realtà molto concrete. La prima che essere persona è semplicemente nascere da un ventre materno, la seconda che come tali abbiamo gli stessi desideri,
traguardi, bisogni, necessità. Noi prima di essere corpo, siamo pensiero, sensazione, emotività e cioè, Anima. Tutto questo non riguarda solo i cosiddetti handicappati,
disabili o come li si voglia chiamare, ma ogni essere che nasce da un ventre materno. Se non capiamo e prendiamo consapevolezza di questo, non capiremo mai che
come persona si nasce; figura, originalità, desiderio e conquista si è. Tutto questo lo dovrebbe capire in primis la famiglia perché parte tutto da come una madre e un
padre vedono il proprio figlio con particolare realtà. Anzi, se non arriva a conquistare un giusto equilibrio tra la delusione nativa del figlio desiderato e la capacità del
fare del figlio, essa potrebbe tramutarsi per tali soggetti nel peggior ostacolo da superare. Non possiamo parlare d’inserimento sociale, se prima non si educa la famiglia
alla disabilità. Un figlio non camminante, non vedente, non udente, non ha bisogno di protezione, ma condivisione.
Pensa che nella nostra società si parli troppo poco di disabilità o se ne parli in maniera sbagliata?
Sicuramente abbastanza, ma in modo sbagliato. Innanzitutto la disabilità non è un problema ma un modo di essere e la prova di questo sta nel fatto che come persone si
nasce; i limiti si possiedono e questo ci dovrebbe far capire che ciò che noi chiamiamo ‘normalità’ è solo agilità corporea che non ha nulla a che vedere con l’essere
handicappato, disabile o altro. La normalità sta solo nella perfezione o funzione degli oggetti, non nella persona. La normalità è un qualcosa di stabile, che non cambia.
Nel momento in cui un oggetto o un qualcosa di simile non funziona o diventa inutile al proprio utilizzo, non è più normale. Se la penna è stata inventata per scrivere,
essa è normale finché scrive. È nel momento in cui finisce l’inchiostro al suo interno che la penna è inutilizzabile e con ciò, anormale al suo funzionamento. Ciò che noi
diamo per normalità al corpo umano come il poter camminare autonomamente, vedere perfettamente o parlare chiaramente, è il modo più scorretto e immane di
parlare di normalità umana. Prendiamo per esempio il discorso delle barriere architettoniche.
Noi diciamo e sosteniamo che bisogna abbatterle per i disabili, anziani e così via, senza pensare che con l’avanzamento dell’età biologica, le nostre gambe perdono
d’agilità, di forza, di resistenza e con ciò saremo anche noi bisognosi di quello scivolo, del bagno largo o della porta a soffietto, esattamente come oggi l’hanno bisogno
coloro che noi chiamiamo disabili o anziani.
La stessa cosa l’abbiamo con la vista, l’udito e via discorrendo. Come persone si nasce, i limiti si possiedono e con ciò, solo nel momento in cui capiremo che ciò che
abbiamo facilmente oggi, non sarà la nostra libertà domani, forse riusciremo a uscire dalla retorica dell’indifferenza. Oggi si fa troppa retorica, anche se non bisogna
negare che si sono fatti molti passi avanti. Occorrerebbe solo che se ne parlasse un po’ di più, sotto l’aspetto di diritto politico-sociale e non come semplice accettazione
o assistenzialismo. Quella è retorica, retorica fuorviante.
Nel suo libro uno dei concetti chiave è quello della Dissimilitudine, ce ne vuole parlare?
Io parlo di Dissimilitudine che è un qualcosa o una realtà umana che ci può aiutare concretamente a capire la differenza tra uguaglianza e similitudine. L’uguaglianza la
possiamo dare a due oggetti o più cose, identicamente uguali e che non hanno in sé nessun particolare che le distingue. Basta prendere due bicchieri identici, stesso
formato, colore del vetro ed è sufficiente che su uno di loro ci sia un disegno che quell’uguaglianza scompare. Restano uguali nella forma ma non nell’immagine, dato
che uno è decorato e l’altro no. Se noi spostiamo il ragionamento sulla persona o essere umano, che cosa notiamo? Che nonostante sia diverso nel modo di parlare, di
camminare, di pensare, agire e reagire, sono sempre simile a tutte le altre persone. Questa similitudine sta nel soffrire, nello sperare, sognare, desiderare, non nel poter
camminare autonomamente o mangiare con la mano destra, anziché la sinistra. Nessuno di noi è fotocopia di un altro. Anche due gemelli possiedono delle
caratteristiche che li distinguono uno dall’altro. Basta saperli osservare e non soffermarsi sulla loro immagine visiva. Siamo disuguali, non dissimili. L’unica
uguaglianza che noi abbiamo, sono i nove mesi che nostra madre ci ha tenuti in grembo. Di altro nulla. Tutto è caso, fato e quant’altro. Come la disuguaglianza si
distingue, rendendoci originali, i sentimenti, l’emotività, le sofferenze ci assimilano agli altri, rendendoci espressione di un se stesso in cerca di un suo significato o
ragion d’essere.
Il rapporto con la religione è molto presente nel libro, ritiene che essa possa svolgere un ruolo consolatorio di fronte alla sofferenza o che sia troppo riduttivo
ricondurla a questo?
Con la religione o cristianesimo, non vado molto d’accordo da moltissimi anni perché con il trascorrere del tempo e approfondendo certi concetti, trovo la Chiesa molto
contraddittoria al Vangelo. Anzi, ho sempre creduto che siano persone molto contraddittorie nei loro discorsi. Il progetto di Dio non ha niente a che vedere con
nascere disabili, il soffrire così via. Vi è una forte contraddizione con quel “Alzati e cammina” e “Padre, allontana da me questo calice” che diceva e implorava Gesù.
Dio non ha nulla a che vedere con le disgrazie umane, perché se così fosse, non sarebbe padre, ma un dittatore. Sono queste contraddizioni che mi hanno allontanato
dalla Chiesa. Credo che ogni religione sia semplicemente un dogma per aggrapparci a un qualcosa che va al di là del vivere terrestre. Si nasce per morire. L'importante è
credere in se stessi per sopravvivere alle disgrazie. Nel libro non vi è traccia di questo perché l’ho scritto quando avevo vent’anni. Ora ne ho 65, perciò… Il tempo e le
esperienze ci cambiano, soprattutto nel momento in cui ci rendiamo conto che la vera e unica fede che esiste è quella che hai di te stesso. Se perdi quella, sì che vivi
nell’inferno. Non credo al Dio come progetto di ognuno di noi. Come lo descrive la Chiesa, è un padrone, non un padre.
La disabilità trova spesso degli ostacoli che non sono solo intrinsechi ma derivano dal rapporto con altri individui. Come si può cercare di superare questi
limiti sia da parte del disabile sia da parte di coloro che si rapportano con lui?
Credo che si tratti solo di un fatto di apparenza e con ciò di mancata conoscenza da entrambe le parti. Sotto il lato emotivo, spirituale e del bisogno degli altri, siamo tutti
allo stesso livello di problema di comunicazione e del sapersi ascoltare reciprocamente.
Esiste ancora molta gente che crede che i disabili siano degli eterni sofferenti, senza pensare o rendersi conto che la sofferenza è parte integrante dell’essere umano.
Non è un limite fisico che peggiora la vita della persona, ma l’indifferenza, la consolazione, il credere all’assistenzialismo. Il cosiddetto ‘disabile’, cosiddetto perché tutti
hanno i propri limiti e ostacoli da affrontare e imparare a superare, non ha bisogno di questo, ma di stima, collaborazione, sostegno e fiducia.
Cose queste che non dipendono solo dall’atteggiamento che gli altri hanno nei o verso i nostri confronti, ma principalmente da noi. Se io mi faccio sempre vedere cupo,
sofferente, triste e chi più ne ha più ne metta, è ovvio che la gente mi giudichi un eterno sofferente e bisognoso d’affetto e compassione. Che colpa hanno gli altri a
vedermi come eterno sofferente, quando sono io a guidarli e condurli a questo? Ecco, anche se è vero che siamo stati sempre visti come inferiori e non solo, è giunto il
momento che anche noi ci addossiamo le nostre responsabilità, soprattutto sotto l’aspetto della comunicazione, non solo dell’accettazione degli altri. I tempi sono
cambiati, ma se non cambio io, non credo che chi mi circonda potrà cambiare pensiero o atteggiamento nei miei confronti, se non sono io ad aiutarli a comprendermi.
Siamo tutti mistero e come tali, dobbiamo scoprirci o svelarci reciprocamente.
Secondo lei l'uomo è composto da una triade, ci vuole chiarire questo concetto?
Come dicevo poc’anzi, il fatto o le cause di nascere o venire al mondo con certe realtà fisiche o psicologiche, non ha nulla a che vedere con la volontà di Dio, ma è dovuto a
incidenti di percorso, sbagli medici e quant’altro. Io non credo che Dio abbia suggerito all’ostetrica di tirarmi dal ventre di mia madre con il forcipe, anche perché
non avrebbe avuto senso condannarmi prima che nascessi, ma per giustificare o consolare una persona nata con una particolare realtà, si dice o si sostiene sempre che
sia un progetto di Dio. Nulla di ciò è vero e per capirlo è sufficiente dire che, al di là del colore della pelle, della propria etnia o del fatto che si è seduti su un trono a
rotelle, ciechi, sordi, si è tutti nati da un ventre materno e non certamente da fabbriche o laboratori come si fa con i robot. Ciò significa che come abbiamo la stessa
radice, poiché non esiste persona al mondo che sia stata, prima desiderata e poi, aspettata per nove mesi, in egual misura, si è Uno/a, Intelletto, Anima. Nessuno di noi è
privo di questi tre coefficienti, anche in colui che può sembrare insignificante o ingenuo. Ciò significa che prima di essere corpo, si è ‘Sensibilità’, ’Sensazione’,
‘Emozione’, ‘Paura’, ‘Speranza’, che come si nascondono dietro o per meglio dire, dentro un corpo o agilità imperfetta, albergano in una stessa abitazione che prende il
nome di Anima; compongo i peggiori guerrieri del proprio sensitivo: ‘Emotività’ e ‘Sensibilità sensoriale’. Com’è la diversità che ci rende originali, è il proprio provare,
patire, soffrire, bisogno d’amore e desiderio d’amare che ci rende simili, non la mancata agilità nei movimenti, una perfetta vista o una voce chiara squillante a renderci
inferiori a un altro. Siamo tutti disuguali, non dissimili, dato che tutti siamo alla ricerca della propria ragione d’esistere. Nessuno è inutile o inferiore a un altro. Siamo
tutti disuguali ma non dissimili.
All'interno dei suo libro trovano spazio anche delle poesie personali. Con quale forma espressiva si trova più a suo agio, ritiene che la poesia possa maggiormente
collimare con le idee che vuole esprimere rispetto alla prosa?
Assolutamente no. Quelle che lei chiama poesie, non sono altro che conclusioni di un attento e curato discorso ragionato. La poesia è tutta un’altra cosa. Essa è
espressione silente della voce di un’anima, è dialogo tra il nostro io è il proprio sé.
In quei piccoli riquadri che ogni tanto si trovano nel libro, ho cercato di invitare la gente a riflettere. Cosa che anch’io non so fare. Molte volte mi meraviglio anch’io di
come abbia potuto scrivere quei pensieri o concetti.
Educare alla disabilità significa che sia il disabile sia che coloro che lo circondano debbano comprendere come interagire correttamente, ognuno nel
bene dell'altro. Chi è dunque il fruitore di questo libro? Entrambe le parti?
Esattamente così. Io non parlo solo di disabilità, sarebbe troppo facile per me. Io parlo di persona, di anima, di sentimenti, di famiglia, non di piagnistei o poveri cristi. A
me non interessa il volontariato, la Chiesa, bensì il concetto di persona. È un libro per tutti quelli che vogliono conoscere cosa si nasconde dietro un’immagine che non è
solo quella di un disabile, non vedente o sordomuto ma di ogni persona. Educarsi alla disabilità, significa semplicemente che tutti abbiamo un senso, un significato e che
sotto l’aspetto sensoriale, spirituale, nessuno è migliore o peggiore dell’altro. Siamo tutti dei disabili e con ciò, il peggior handicap è quello che non si vede. Chi crede che
la normalità sta in un corpo perfetto, non sa riconoscere i propri limiti. Soprattutto quelli sensoriali. Ecco perché oggi tanti giovani si drogano, si ammazzano fra loro o
non si accetta più una separazione. Tutti nasciamo disabili in qualcosa e il guaio sta nel momento in cui la propria disabilità sensoriale, che sta proprio nel non accettare
il nostro soffrire, si trasforma in handicap. Disabili si nasce, handicappati si diventa.
Educarsi alla disabilità di Rosario Rito
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